Fisco

A fini fiscali la dichiarazione di terzi può provare la dimora abituale


Può essere sufficiente la dichiarazione di terzi per provare la dimora abituale del contribuente. 

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11786/2025, pubblicata il 5 maggio, accogliendo il ricorso di un contribuente promosso contro la decisione dei giudici di merito che invece avevano dato ragione all’Amministrazione finanziaria.

I fatti

La Direzione provinciale di Avellino dell’Agenzia delle Entrate aveva emesso a carico di un contribuente un avviso di accertamento, con cui riportava a tassazione ai fini IRPEF la plusvalenza realizzata dal contribuente stesso, a seguito della cessione di un immobile acquistato l’anno precedente ad un prezzo notevolmente superiore.

Il Fisco rilevava che l’immobile non era stato adibito ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari, pertanto, doveva escludersi che la plusvalenza da lui conseguita fosse esente da imposizione ai sensi dell'art. 67, comma 1, lettera b), del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR).

Il contribuente, allora, impugnava l’avviso di accertamento davanti alla Commissione provinciale di Avellino che accoglieva il ricorso, annullando l’atto impositivo delle Entrate, ritenendo valida la prova portata in giudizio dal ricorrente, il quale aveva dimostrato, secondo i giudici di prime cure, di aver utilizzato l'immobile come propria abituale dimora nel lasso di tempo intercorso fra l'acquisto e la successiva cessione.

L'Agenzia delle Entrate proponeva appello davanti alla Commissione Tributaria Regionale della Campania che dichiarava inammissibile l'esperito gravame per mancato deposito della «copia della ricevuta della raccomandata relativa alla notifica dell'atto di impugnazione», oltre che per difetto di specificità dei motivi.

La pronuncia era stata, però, in sèguito annullata dalla Corte di Cassazione, che con ordinanza n. 23807/2018 del 1° ottobre 2018, in accoglimento del ricorso per cassazione proposto dalla stessa agenzia fiscale, disponeva il rinvio ad altro giudice che rigettava il ricorso del contribuente, ritenendo che l’ufficio avesse provato, a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti, che l'immobile ceduto non era stato adibito dal contribuente a propria abitazione principale, scartando a priori la prova prodotta in giudizio dal contribuente consistente in dichiarazioni di terzi soggetti, i quali attestavano la presenza abituale del contribuente nell’immobile oggetto di esame.

Contro tale pronuncia il contribuente proponeva un nuovo ricorso in Cassazione.

La decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del contribuente, ricordando che, secondo il dettato letterale dell'art. 67, comma 1, lettera b), del TUIR, secondo cui sono assoggettate a tassazione come redditi diversi -se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguite nell'esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente- le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l'acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari, la plusvalenza derivante dalla cessione a titolo oneroso di un'unità immobiliare urbana acquisita da meno di cinque anni in base a un titolo diverso dalla successione, non costituisce reddito tassabile soltanto laddove il cedente abbia adibito l'immobile a propria abitazione principale.

Ai fini dell’esenzione da imposizione, chiariscono gli ermellini, il legislatore ha, quindi, dato rilievo alla situazione abituale di fatto (cfr. Cass. n. 17528/2024), a prescindere dalle risultanze anagrafiche, ragion per cui, al contribuente viene riconosciuta la possibilità di provare che un immobile sito in altro luogo sia stato effettivamente destinato a propria abitazione principale per la maggior parte del tempo intercorso prima della vendita (cfr. Cass. n. 30180/2021), anche attraverso modalità diverse.

 A parere della Cassazione, la Commissione regionale ha, pertanto, errato nel ritenere inutilizzabili le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà rilasciate da terzi e impiegate in giudizio per dimostrare che l'immobile di cui si discorre avesse effettivamente costituito la dimora abituale del contribuente in un periodo di circa un anno tra l’acquisto e la vendita dell’immobile medesimo.

Va riconosciuta, scrivono i giudici della Cassazione, secondo un orientamento ormai costante della giurisprudenza di legittimità, in virtù del principio del giusto processo sancito dall'art. 6 della CEDU e a garanzia della parità delle armi e dell'attuazione del diritto di difesa, la possibilità di introdurre, nel giudizio dinanzi alle Commissioni Tributarie (ora Corti di giustizia tributaria), dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, aventi il valore probatorio proprio degli elementi indiziari (cfr. Cass. n. 30180/2021, resa in controversia analoga a quella che qui ci occupa; nello stesso senso, ex ceteris, Cass. n. 9903/2020, Cass. n. 18065/2016, Cass. n. 8987/2013, Cass. n. 20028/2011).

Le dichiarazioni rese in giudizio da parte di terzi soggetti, quindi, non dovevano essere scartate a priori come invalide, prescindendo da qualunque apprezzamento; la CTR avrebbe dovuto valutarle, spiegano i giudici, in quanto indizi suscettibili di condurre, nel contesto di una valutazione complessiva dei contrastanti elementi di prova addotti dalle parti, a una decisione diversa da quella adottata.

Ne consegue la cassazione dell'impugnata sentenza, con rinvio ad altro giudice tributario per una nuova analisi, sulla scorta delle indicazioni della Corte di Cassazione.