La SRL va ricapitalizzata o sciolta senza indugio. Condannato per bancarotta fraduolenta l'amministratore che non procede
Con la sentenza n. 7816 del 26 febbraio 2025, la Quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato da un imprenditore che i giudici di merito avevano condannato per bancarotta fraudolenta impropria, fattispecie di cui agli articoli 223, comma 2, n. 1, r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fall.), per avere, nella sua qualità di presidente del consiglio di amministrazione di una s.r.l., concorso nel cagionarne il dissesto, esponendo, nel bilancio relativo all'esercizio 2010, al fine di ingannare i soci o comunque il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, fatti non rispondenti al vero (indicando un patrimonio netto attivo benché lo stesso fosse negativo ed esponendo un risultato economico in utile nonostante che esso fosse in perdita, con sovrastime inesistenti) e omettendo di adottare, a partire dall'esercizio 2010, i provvedimenti di ricapitalizzazione o di scioglimento imposti dagli artt. 2482-bis e 2482-ter cod. civ. pur in presenza delle relative condizioni, continuando, dunque, ad accumulare perdite sino a cagionare il fallimento della società.
L’oggetto del ricorso
Il ricorrente lamentava nel suo ricorso la falsa applicazione e violazione da parte dei giudici di seconde cure dell'articolo 2621, primo comma, del Codice Civile in relazione all'articolo 223, comma 2, n. 1, legge fallimentare, poiché, essendo tale articolo stato modificato dalla legge n. 69 del 2015 [e, dunque, in epoca successiva sia al materiale perfezionarsi delle condotte di falso in bilancio, che risalivano al 2011, sia alla data della sentenza dichiarativa del fallimento], in applicazione dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, regolati dall'art. 2 cod. pen., avrebbe dovuto applicarsi la disposizione entrata in vigore successivamente alla redazione e alla approvazione del bilancio della s.r.l. relativo all'esercizio 2010, in quanto più favorevole al reo.
In merito alla ricapitalizzazione ovvero allo scioglimento della società, la difesa del ricorrente riteneva che la situazione della s.r.l. al momento della scelta tra la ricapitalizzazione, la trasformazione o la messa in liquidazione, era patrimonialmente diversa rispetto a quella iniziale e che non vi sarebbero state le condizioni per la ricapitalizzazione o la messa in liquidazione, non essendo in atto una crisi di solvibilità, sicché l'ipotesi prospettata dalle sentenze di merito avrebbe portato a una scelta prematura e irrazionale.
L'art. 2621 c.c. dopo la riforma del 2015
Nella sua decisione, la Cassazione fornisce in premessa un chiaro esame delle norme succedutesi nel tempo, ritenute violate e falsamente applicate dal ricorrente, chiarendo che, in origine, l'art. 2621 cod. civ., facendo salvo quanto previsto dall'art. 2622 cod. civ., puniva il fatto degli amministratori, dei direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori, i quali con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, esponessero fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni ovvero omettessero informazioni la cui comunicazione fosse imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa apparteneva, con modalità idonee a indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione.
A seguito della riforma del 2015, la disposizione punisce, invece, il fatto dei medesimi soggetti che, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongano fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettano fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore.
Le modifiche apportate alla disposizione riguardano, spiega la Cassazione:
- la diversa qualificazione dell'illecito, che da contravvenzione è diventato delitto;
- l'eliminazione sia dell'intenzione di ingannare i soci o il pubblico dalla definizione del dolo specifico della condotta, sia dell'inciso «ancorché oggetto di valutazione» che, nel testo previgente, accompagnava la descrizione dell'oggetto del mendacio;
- la differente definizione del falso per omissione, che ora consiste nella mancata rappresentazione di fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene;
- l'inserimento dell'avverbio «concretamente» per definire la necessaria idoneità decettiva della condotta, l'eliminazione di tutte le ipotesi di esclusione della punibilità.
Ciò posto, il Collegio rileva che, anche volendo applicare la nuova formulazione della norma al caso di specie, le sentenze di merito hanno puntualmente evidenziato che la concreta modalità di redazione del bilancio è avvenuta in violazione dei principi contabili stabiliti dall'OIC nn. 11 e 15 attraverso l'imputazione all'anno 2010 di ricavi ottenuti dalla vendita di alcuni immobili della srl, senza che vi fosse stata l'acquisizione della proprietà degli stessi (come, invece, imposto anche dall'art. 109, comma 2, lett. a), del testo unico imposte sui redditi), rappresentando dunque una falsa situazione economica della società, occultando il fatto che la stessa aveva, invece, subito perdite significative.
Ne consegue che deve essere confermata la concreta capacità decettiva della falsa comunicazione sociale.
Dolo generico e dolo specifico nell'articolo 2621 c.c.
Quanto, poi, all'ulteriore aspetto concernente il dolo specifico richiesto dall'art. 2621 cod. civ., la sentenza impugnata ha correttamente precisato che, senza l'artificiosa attribuzione di un falso valore alle voci attive del bilancio s a r e b b e stato rappresentato un capitale sociale al di sotto del minimo legale, che avrebbe comportato l'obbligo di ripianare le perdite o, in alternativa, di sciogliere la società secondo quanto stabilito dall'art. 2484, n. 4, cod. civ.; sicché l'ingiusto profitto perseguito deve ritenersi regolarmente distinguibile proprio nella possibilità offerta dalla falsa comunicazione sociale di sottrarsi a tali doverosi adempimenti, proponendosi al mercato come una società in bonis attraverso la rappresentazione di un valore economico superiore a quello reale.
Il fatto poi rappresentato dalla difesa che l'indicazione di un'acquisizione proprietaria non avvenuta potesse essere il frutto di un errore imputabile al commercialista era stato ritenuto inverosimile dai giudici di merito, valutazione confermata dagli ermellini, in quanto, a fronte di bilanci parimenti incompatibili con la prosecuzione dell'attività sociale, l'amministratore aveva continuato a non adottare le misure previste dalle citate disposizioni del codice civile, essendo stata smentita dai bilanci del 2011 e 2012, entrambi in perdita, l'affermazione secondo cui la società sarebbe successivamente ritornata in bonis.
Inoltre, una volta chiarita la consapevolezza in capo all'amministratore della violazione contabile e della sua finalità decettiva rispetto ai creditori e agli altri soggetti economici che venivano in contatto con la società, le sentenze impugnate, secondo la Cassazione, avevano anche dato atto della configurabilità del dolo generico rispetto all'evento del reato costituito dal dissesto, correttamente ricostruito non nella prospettiva di una non richiesta intenzionalità dell'insolvenza, quanto in quella di una consapevole rappresentazione della probabile - ma ciononostante perseguita - diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico della società.
La società va ricapitalizzata o sciolta tepmestivamente
Infine, è nemmeno condivisibile, l'affermazione difensiva secondo cui l'amministratore non sarebbe gravato da alcun obbligo di procedere alla immediata ricapitalizzazione della società e che, anzi, la mancata adozione di immediate contromisure era da ritenersi un doveroso esercizio di prudenza, tenuto conto di quanto previsto dai citati artt. 2482-ter e 2484, comma primo, n. 4, cod. civ., a mente dei quali, a seguito della riduzione del capitale sociale al disotto del minimo, deve procedersi «senza indugio» (ovvero nel più breve tempo possibile: così Sez. 5, n. 11887 del 13/10/2000, Demichelis, Rv. 217986 - 01), alla ricapitalizzazione o allo scioglimento [e non certo alla falsa rappresentazione in bilancio di attività e passività della società].
La condanna dell’amministratore per bancarotta fraudolenta impropria viene, pertanto, confermata anche in sede di legittimità.